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Perchè non viviamo in un Paese normale?

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In Italia c’è una melmosa e scura palude che si chiama burocrazia. Chi si avventura deve affrontare un periglioso cammino dove sa quando ci entra, ma non sa mai quando e come ne uscirà. Se ne uscirà.
Ingarbuglia, complica, confonde, sommerge, toglie il fiato, piega le gambe e svuota la volontà anche del più tenace e cocciuto imprenditore. È una macchina farraginosa, obsoleta e arrugginita, che si schioda, a volte, solo se ci metti dell’olio. Avete capito di che olio si tratta?
In Italia la burocrazia è una casta con una storia antica che affonda le sue radici nella stessa evoluzione sociale del popolo italico e sin da tempi remoti. Dagli antichi romani fino al medioevo, al dominio dello Stato Chiesa e financo ai nostri giorni: chiunque nei secoli dei secoli ha detenuto anche un piccolo potere, ha cercato di farlo fruttare. Non era, e non è, solo una questioni di soldi: a volte chi ha pubblica posizione la sfrutta anche solo per darsi un tono, per dare valore al proprio ruolo, o per lenire le proprie frustrazioni. A chi non è capitato di trovarsi di fronte a un pubblico impiegato il quale anche quando deve dare un semplice informazione pare stia donando la reliquia di un Santo. Non è un Paese normale il nostro: nel bene e nel male.
Ma quanto costa questa anormalità? Lo abbiamo già scritto in altre occasione, ma vale la pena sempre ripeterlo.
La macchinosa e per certi versi inutile esistenza della burocrazia costa alle casse dello Stato (cioè a tutti gli italiani) 100 miliardi di euro l’anno. Si avete letto bene:100 miliardi di euro, una cifra pazzesca. Uno schifo gigantesco.
30 miliardi sono persi in sprechi e inefficienze, mentre il resto se ne va in mazzette e malaffare.
Ma non è tutto qui, non è solo qui: la burocrazia con il suo imperterrito rifiuto della logica e delle pratiche esigenze di chi fa impresa costa ben altra cifra che non è mai stata calcolata.
Quanto sarebbero più snelle le imprese italiane se non finissero nelle pastoie della burocrazia che, ad esempio parlando di pizzerie, per lasciare il permesso di una canna fumaria ci mettono almeno 6 mesi, come se stessero autorizzando una centrale nucleare? Sei mesi di lavoro perso per un pezzo di carta che non serve a niente, se ci mettiamo insieme tutto il tempo per ritirare milioni di pezzi di carta che non servono a niente verrebbe fuori una cifra da paura. Una cifra così alta che se guadagnata e messa a profitto nell’economia del Paese, e non buttata al vento come succede ora, porterebbe l’Italia ad essere il primo paese al Mondo. Altro che Cina o Germania.

Il nuovo governo
Il novello governo Renzi ha deciso di fare guerra alla burocrazia per far diventare l’Italia finalmente un Paese normale, dove chi vuole fare impresa nel giro di 24 ore potrà tranquillamente iniziare (come succede negli Stati Uniti) senza dover affrontare una giungla di norme che spezzerebbe le gambe anche al più eroico degli imprenditori.
C’è la farà il nuovo premier? La vediamo dura, tuttavia la riserva va sciolta a posteriori. Per il momento speriamo bene.

La storia e il paradosso
Abbiamo voluto scrivere questo breve incipit di quanto la burocrazia sia il male dei mali per andare a raccontarvi brevemente uno dei paradossi burocratici capitati a un nostro lettore.
Una disavventura che farà certo pari alle tante capitate fra capo e collo ad altri ristoratori che sono incappati, loro malgrado, nelle ottuse, sorde, asfissianti, illogiche, paradossali, micidiali maglie della vischiosa illogica burocrazia italiana.
La storia è questa: Enrico, 35 anni dalla provincia di Vicenza, titolare di una Pizzeria, nel 2012 riceve una notifica dall’Agenzia delle entrate nella quale scopre che lui aveva guadagnato somme che non sapeva minimamente di avere guadagnato. Si trattava degli studi di settore che secondo una serie di calcoli affermava che Enrico nel 2009 non aveva denunciato incassi per 180 mila euro, sicché facendo tutta una serie di calcolini, fra iva non versata e altre gabelle reclamava nel giro di tot giorni la somma di € 65mila.
Immaginatevi il colpo quando Enrico apre la busta: fatica a leggere i numeri, strabuzza gli occhi, li chiude e li apre per leggere meglio, ma la cifra non cambia: restano € 65mila e da dare pure in fretta.
«Ma come è possibile? - si chiede Enrico -  il 2009 è l’anno in cui ho aperto il locale, ma era il 13 dicembre per la precisione: come è possibile calcolare che in 20 giorni dovevo incassare tutti quei soldi?».
Si reca quindi dal suo ragioniere per vedere come far valere le sue ragioni. «C’è un errore evidente - lo tranquillizza il ragioniere - l’Agenzia probabilmente ha preso atto che avevi aperto la partita iva nel 2008, ma non sapeva, non poteva sapere, che fra autorizzazioni amministrative e permessi avresti perso almeno un anno per aprire effettivamente. Senza contare che, dopo la prima settimana di apertura, ti hanno bloccato la licenza per 4 mesi perché il bagno di servizio aveva una porta di accesso che misurava in larghezza 76 centimetri, invece che gli 80 richiesti dalla legge. Per 4 centimetri hai perso 4 mesi, e hai potuto aprire solo il 13 dicembre 2009. Stai sereno Enrico risolviamo tutto! - conclude il ragioniere - Non ci sono problemi».
Però per tutta una serie di situazioni, che Enrico non ha mai capito, preso com’era dal suo lavoro che gli lasciava poco tempo, il ricorso sbaglia strada e la pratica va in contenzioso e passa nelle fauci di Equitalia. Sicché, nel 2013, lì dove Enrico s’illudeva che era tutto ok, con sua grande amara sorpresa riceve una raccomandata di Equitalia: la storia è sempre la stessa, ma i soldi richiesti sono molti di più, la cifra viaggia intorno ai 100mila. È un colpo da infarto. Torna dal ragioniere il quale cade dal pero, fa un’indagine e si accorge che la raccomandata del ricorso è stata inoltrata con un protocollo non corretto, perdendosi nella palude della burocrazia. Ma il fatto peggiore è che per l’agenzia è come se il ricorso non esistesse e ora Enrico deve fronteggiare una pretesa economica assurda.
«Non c’è problema -  gli dicono - possiamo dilazionare».
«Ma dilazionare cosa? Se questi soldi non esistono al mondo e non sono dovuti nel modo più assoluto?». Ma il mostro non si ferma e ingarbuglia ancor più le cose. Nel frattempo è stata iscritta un’ipoteca di secondo grado sulla casa di proprietà, che era già gravata da un mutuo, che a breve Equitalia la metterà all’incanto. Le banche poi appena hanno fiutato le difficoltà gli hanno tolto subito gli affidamenti. Enrico per difendersi ha messo di mezzo gli avvocati, ma occorrono soldi e i tempi non saranno brevi. È una brutta storia, è la burocrazia che uccide.
Enrico oggi ha sempre meno voglia di fare, è depresso e scoraggiato. Anche il locale non va più bene come un tempo e ha cominciato a prendere delle medicine per lenire il suo stato depressivo. La notte dorme poco e male, si sveglia e si chiede: «Perché non vivo in un Paese normale?»
Ce lo chiediamo anche noi: «Perché non viviamo in un Paese normale?»
Ad Enrico tutta la nostra solidarietà.

 

Giuseppe Rotolo


09/04/2014

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